Dieci poesie di Gaspara Stampa

Ritratto di Gaspara Stampa

Io assimiglio il mio signor al cielo
meco sovente. Il suo bel viso è ‘l sole;
gli occhi, le stelle, e ‘l suon de le parole
è l’armonia, che fa ‘l signor di Delo.
Le tempeste, le piogge, i tuoni e ‘l gelo
son i suoi sdegni, quando irar si suole;
le bonacce e ‘l sereno è quando vuole
squarciar de l’ire sue benigno il velo.
La primavera e ‘l germogliar de’ fiori
è quando ei fa fiorir la mia speranza,
promettendo tenermi in questo stato.
L’orrido verno è poi, quando cangiato
minaccia di mutar pensieri e stanza,
spogliata me de’ miei più ricchi onori.

*

Se d’arder e d’amar io non mi stanco,
anzi crescermi ognor questo e quel sento,
e di questo e di quello io non mi pento,
come Amor sa, che mi sta sempre al fianco,
onde avien che la speme ognor vien manco,
da me sparendo come nebbia al vento,
la speme che ‘l mio cor può far contento,
senza cui non si vive, e non vissi anco?
Nel mezzo del mio cor spesso mi dice
un’incognita téma: – O miserella,
non fia ‘l tuo stato gran tempo felice;
ché fra non molto poria sparir quella
luce degli occhi tuoi vera beatrice,
ed ogni gioia tua sparir con ella.

*

Voi, che ‘n marmi, in colori, in bronzo, in cera
imitate e vincete la natura,
formando questa e quell’altra figura,
che poi somigli a la sua forma vera,
venite tutti in graziosa schiera
a formar la più bella creatura,
che facesse giamai la prima cura,
poi che con le sue man fe’ la primiera.
Ritraggete il mio conte, e siavi a mente
qual è dentro ritrarlo, e qual è fore;
sì che a tanta opra non manchi niente.
Fategli solamente doppio il core,
come vedrete ch’egli ha veramente
il suo e ‘l mio, che gli ha donato Amore.

*

Or che torna la dolce primavera
a tutto il mondo, a me sola si parte;
e va da noi lontana in quella parte,
ov’è del sol più fredda assai la sfera.
E que’ vermigli e bianchi fior, che ‘n schiera
Amor nel viso di sua man comparte
del mio signor, del gran figlio di Marte,
daranno agli occhi miei l’ultima sera,
e fioriranno a gente, ove non fia
chi spiri e viva sol del lor odore,
come fa la penosa vita mia.
O troppo iniquo, e troppo ingiusto Amore,
a comportar che degli amanti stia
sì lontano l’un l’altro il corpo e ‘l core!

*

Io benedico, Amor, tutti gli affanni,
tutte l’ingiurie e tutte le fatiche,
tutte le noie novelle ed antiche,
che m’hai fatto provar tante e tanti anni;
benedico le frodi e i tanti inganni,
con che convien che i tuoi seguaci intriche;
poi che tornando le due stelle amiche
m’hanno in un tratto ristorati i danni.
Tutto il passato mal porre in oblio
m’ha fatto la lor viva e nova luce,
ove sol trova pace il mio disio.
Questa per dritta strada mi conduce
su a contemplar le belle cose e Dio,
ferma guida, alta scorta e fida luce.

*

Se poteste, signor, con l’occhio interno
penetrar i segreti del mio core,
come vedete queste ombre di fuore
apertamente con questo occhio esterno,
vi vedreste le pene de l’inferno,
un abisso infinito di dolore,
quanta mai gelosia, quanto timore
Amor ha dato o può dar in eterno.
E vedreste voi stesso seder donno
in mezzo a l’alma, cui tanti tormenti
non han potuto mai cavarvi, o ponno;
e tutti altri disir vedreste spenti,
od oppressi da grave ed alto sonno
e sol quei d’aver voi desti ed ardenti.

*

Se soffrir il dolore è l’esser forte,
e l’esser forte è virtù bella e rara,
ne la tua corte, Amor, certo s’impara
questa virtù più ch’in ogn’altra corte,
perché non è chi teco non sopporte
de’ dolori e di téme le migliara
per una luce in apparenza chiara,
che poi scure ombre e tenebre n’apporte.
La continenzia vi s’impara ancora,
perché da quello, onde s’ha più disio,
per riverenza altrui s’astien talora.
Queste virtuti ed altre ho imparate io
sotto questo signor, che sì s’onora,
e sotto il dolce ed empio signor mio.

*

Volgi, Padre del cielo, a miglior calle
i passi miei, onde ho già cominciato
dietro al folle disio, ch’avea voltato
a te, mio primo e vero ben, le spalle;
e con la grazia tua, che mai non falle,
a porgermi il tuo lume or sei pregato:
trâmi, onde uscir per me sol m’è vietato,
da questa di miserie oscura valle.
E donami destrezza e virtù tale,
che, posti i miei disir tutti ad un segno,
saglia ove, amando il nome tuo, si sale,
a fruire i tesori del tuo regno;
sì ch’inutil per me non resti e frale
la preziosa tua morte e ‘l tuo legno.

*

Purga, Signor, omai l’interno affetto
de la mia coscienzia, sì ch’io miri
solo in te, te solo ami, te sospiri,
mio glorioso, eterno e vero obietto.
Sgombra con la tua grazia dal mio petto
tutt’altre voglie e tutt’altri disiri;
e le cure d’amor tante e i sospiri,
che m’accompagnan dietro al van diletto.
La bellezza ch’io amo è de le rare
che mai facesti; ma poi ch’è terrena,
a quella del tuo regno non è pare.
Tu per dritto sentier là su mi mena,
ove per tempo non si può cangiare
l’eterna vita in torbida, e serena.

*

Mesta e pentita de’ miei gravi errori
e del mio vaneggiar tanto e sì lieve,
e d’aver speso questo tempo breve
de la vita fugace in vani amori,
a te, Signor, ch’intenerisci i cori,
e rendi calda la gelata neve,
e fai soave ogn’aspro peso e greve
a chiunque accendi di tuoi santi ardori,
ricorro, e prego che mi porghi mano
a trarmi fuor del pelago, onde uscire,
s’io tentassi da me, sarebbe vano.
Tu volesti per noi, Signor, morire,
tu ricomprasti tutto il seme umano;
dolce Signor, non mi lasciar perire!

*

(Da Rime di Gaspara Stampa, Biblioteca Universale Rizzoli, 1978)

Gaspara Stampa nasce a Padova nel 1523. Il padre è un commerciante di gioielli, ma di nobile estrazione: appartiene infatti ad un ramo cadetto degli Stampa, casato antico e illustre.

Nel 1531, la famiglia Stampa si trasferisce a Venezia. Qui, ancora giovanissima, Gaspara inizia a frequentare i salotti più in vista, facendosi notare non solo per la sua bellezza e la sua cultura, ma anche per le sue doti artistiche: è infatti poetessa, cantante e suonatrice di liuto.

Per molti anni, Gaspara vive una vita elegante, libera e spregiudicata, soprattutto in amore. L’esperienza in tal senso più significativa è quella con il conte Collaltino di Collalto: per la poetessa sono tre anni di amore intenso e coinvolgente, ma anche molto sofferto, dato che il conte non ricambia pienamente i suoi sentimenti. La storia lascia tracce profonde nella produzione poetica di Gaspara: buona parte delle sue Rime, infatti, parla di questo amore infelice.

L’ultimo scorcio della sua opera, invece, risente fortemente della crisi spirituale e religiosa da lei attraversata dopo la fine di questa relazione. Gaspara Stampa muore a Venezia nel 1554 per una malattia intestinale, forse dovuta all’indebolimento fisico a cui l’avevano ridotta le pene d’amore.

Le sue Rime, pubblicate dalla sorella nel 1554, sono un canzoniere composto secondo il modello petrarchesco, ma con un’originalità e una freschezza capaci ancora oggi di incantare il lettore. Questo perchè la poetessa padovana vi ha trasfuso tutto il suo ardore di donna e di anima. Nelle Rime di Gaspara Stampa, quindi, non c’è solo l’opera di una poetessa talentuosa e colta, ma anche un mondo interiore ancora vivo e vibrante.

Donatella Pezzino

Immagine da Wikipedia

Articolo pubblicato su Alessandria Today alla pagina: Poeti: Dieci poesie di Gaspara Stampa, di Donatella Pezzino – Magazine Alessandria today – Pier Carlo Lava