
da Alcyone (1903)
Furit Aestus
Un falco stride nel color di perla:
tutto il cielo si squarcia come un velo.
O brivido su i mari taciturni,
o soffio, indizio del súbito nembo!
O sangue mio come i mari d’estate!
La forza annoda tutte le radici:
sotto la terra sta, nascosta e immensa.
La pietra brilla piú d’ogni altra inerzia.
La luce copre abissi di silenzio,
simile ad occhio immobile che celi
moltitudini folli di desiri.
L’Ignoto viene a me, l’Ignoto attendo!
Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano.
Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento.
T’amo, o tagliente pietra che su l’erta
brilli pronta a ferire il nudo piede.
Mia dira sete, tu mi sei piú cara
che tutte le dolci acque dei ruscelli.
Abita nella mia selvaggia pace
la febbre come dentro le paludi.
Pieno di grida è il riposato petto.
L’ora è giunta, o mia Mèsse, l’ora è giunta!
Terribile nel cuore del meriggio
pesa, o Mèsse, la tua maturità.
*
Le lampade marine
Lucono le meduse come stanche
lampade sul cammin della Sirena
sparso d’ulve e di pallide radici.
Bonaccia spira su le rive bianche
ove il nascente plenilunio appena
segna l’ombra alle amare tamerici.
Sugger di labbra fievole fa l’acqua
ch’empie l’orma del piè tuo delicata.
*
Stabat nuda aestas
Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l’aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Piú rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la rèsina gemette giú pe’ fusti.
Riconobbi il colúbro dal sentore.
Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l’ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell’argento pallàdio trasvolare
senza suono. Piú lungi, nella stoppia,
l’allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch’io per nome la chiamai.
Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Piú lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.
Il ponente schiumò ne’ suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.
*
Nella belletta
Nella belletta i giunchi hanno l’odore
delle persiche mézze e delle rose
passe, del miele guasto e della morte.
Or tutta la palude è come un fiore
lutulento che il sol d’agosto cuoce,
con non so che dolcigna afa di morte.
Ammutisce la rana, se m’appresso.
Le bolle d’aria salgono in silenzio.
*
La sabbia del tempo
Come scorrea la calda sabbia lieve
per entro il cavo della mano in ozio
il cor sentí che il giorno era piú breve.
E un’ansia repentina il cor m’assale
per l’appressar dell’umido equinozio
che offusca l’oro delle piagge salse.
Alla sabbia del Tempo urna la mano
era, clessidra il cor mio palpitante,
l’ombra crescente di ogni stelo vano
quasi ombra d’ago in tacito quadrante.
*
Il vento scrive
Su la docile sabbia il vento scrive
con le penne dell’ala; e in sua favella
parlano i segni per le bianche rive.
Ma, quando il sol declina, d’ogni nota
ombra lene si crea, d’ogni ondicella,
quasi di ciglia su soave gota.
E par che nell’immenso arido viso
della pioggia s’immilli il tuo sorriso.
*
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole piú nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
piú rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
piú sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
piú roco
che di laggiú sale,
dall’umida ombra remota.
Piú sordo e piú fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
piú folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra piú fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sí che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.
*
da Alcyone (1903) – ed. a cura di Pietro Gibellini, Torino, Einaudi, 1995
Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara nel 1863. Scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota, ha lasciato tracce profonde non solo in ambito letterario ma anche nella moda e nel costume italiano.
Soprannominato “Il Vate”, è considerato l’ultima voce autorevole e duratura della tradizione poetica italiana e massimo esponente del decadentismo.
Nella sua figura, estetismo, multiforme ingegno artistico e distacco dai valori borghesi si intrecciano strettamente dando vita ad uno stile singolare e ancora oggi di grande fascino.
Muore nel 1938 a Gardone Riviera, nella sua celebre e sontuosa villa da lui stesso denominata Vittoriale degli italiani.
Tra i suoi numerosi scritti spiccano le raccolte poetiche Primo Vere (1879), Canto Novo (1882) e Alcyone (1903), oltre a romanzi, novelle, cronache, lettere e opere teatrali. Alcune sue poesie, come La pioggia nel pineto tratta dalla raccolta Alcyone (1903) sono considerate veri e propri classici senza tempo.
Donatella Pezzino
Articolo pubblicato sul “Caffè letterario” di Bibbia d’Asfalto alla pagina Gabriele D’Annunzio / Caffè letterario – BIBBIA D’ASFALTO (poesiaurbana.altervista.org)
Nell’immagine: Gabriele D’Annunzio (foto da wikipedia)
Poesie scelte dalla raccolta Alcyone (1903).