
“Terra bruciata di mezzo” è il viaggio di un’anima attraverso le pieghe dei ricordi, le malinconie insondate, i vapori esalati dalle dolci correnti di un vento ormai passato, la cui stanchezza è negli anni e non nella capacità di sentire e amare. Rifugiarsi in quegli
Anfratti di cucina
dove i tuoi parlari
furono scaldico diletto,
fabulae inventate alle finestre
bratte di piovaschi
cumulati per anni
solo per indugiare al gioco
come metafisica dozzinale
diventa quasi una meta obbligata per espiare con le struggenti gioie della rievocazione una sofferenza congenita e mai del tutto vinta. Sofferenza che aleggia come una nebbia, un profumo, un male sottile ed invisibile; che permea ogni angolo di questa terra avara di carezze e prodiga di solitudini, il cui paesaggio è più quello che ci si lascia alle spalle piuttosto che un orizzonte al culmine della sua pienezza.
Ma fu misura dell’esser solitudini,
un confronto col quartiere
che gradualmente
si riscuote dal sopore.
Ogni verso, un respiro: è questa la poesia di Servetti che, lontana da artifici tecnici emotivamente paralizzanti, segue il fluire delle sensazioni, il sapore cangiante dell’aria, il silenzio ovattato dove tutto parla e dove tutto vive e palpita. Palpita, è vero: ma lo fa con un battito antico che segna il passo alla caducità delle cose, filtrando l’eternità attraverso il tempo con la sensibilità profonda di chi si aggrappa all’istante senza dimenticare le proprie radici, consapevole che solo in esse sta il senso che l’uomo ha cercato da sempre:
Una sfilata di morti anonime
con gl’intervalli degli spot
mozzature spettacolari
colaticci di bava mantecata
alle lacrime;
e qui si pensa d’essere al sicuro,
le percezioni alterate,
le nubi storpiate
dal frastuono e dal calore.
Tutto, in questa terra di mezzo, nasce dall’intreccio del presente con un passato assai più remoto di quello che ognuno di noi ha vissuto: ecco perché stringendo nel pugno anche una sola zolla di quella terra si prova forte la sensazione di restare avvinti al proprio sé, e soprattutto a quel sé che non si è mai conosciuto e al quale tende il lungo cammino dell’autocoscienza.
E, “poichè l’inganno è nel dire/ che il mondo è situato qui/ e il dolore altrove”, la terra di mezzo si rivela nel suo doloroso compito di traghettarci verso un risveglio brusco ma necessario che spalanca i nostri occhi con forza e li mette di fronte alla morte di tutte le illusioni. E cosa sono le illusioni se non la vita stessa?
Il risveglio permane incerto
e chi in maniche di camicia
inizia a rastrellare vuoti d’aria,
chi per burla ridisegna
i profili delle colline rosicate
e brunite dalle vampe della notte.
Una vena di esistenzialismo emerge potente quando l’obiettivo si sposta dalla realtà alla dimensione individuale: e, anche in quel caso, la profonda sensibilità dell’autore gratta dalla superficie gli ultimi residui di antropocentrismo per scoprire nell’essere umano l’estremo brandello di una creazione che resta quasi indifferente al suo destino:
Sono specchiato dove non nasco,
spettro e residuo
d cateratta solare
quasar perduta nell’arsura
dei muri e dei vetri,
illuso d’esser figurato sdrucitura
di questa veduta patinata,
strappo e ferita fino al nadir
che come un tracciato si stende
sulle lenzuola ancor zuppe;
e il sentore delle mandorle
abbandonate dopo le feste d’inverno
persevera molle
prima di struggersi
tra i pensili e nei fondi
delle tazze sbeccate.
L’uomo, ombra malata che nel frastuono crede di trovare un balsamo alle ferite del suo nulla, si staglia sullo sfondo di una commedia quotidiana dove anche l’amore ha un retrogusto crepuscolare, e dove un sottofondo di morte lo tiene avvinto come un tralcio:
le manopole del gas
perigliosamente schiuse
i bicchieri implosi
il rintrono del cuore tuo
rasente il mio silenzio.
In questo amore, le parole taciute sembrano il vero e unico collante che salda le anime nel conforto di un tormento continuo e senza scampo, un veleno sottile che inebria mentre uccide lentamente:
L’indifferenza forse,
quella che come un ricatto
succede all’angoscia,
fu sospesa nel vento
che spirava dal fontanile di mare;
eppure sembrava tenerci al sicuro.
La fugacità degli ardori più sensuali potrebbe offrirsi come antidoto alla cancrena dello spirito , ma ancora una volta tutto sfuma in un silenzio carico d’inconsistenza dove l’infelicità ha le sembianze di una donna fragile e inesplorabile:
Il giorno seguita nell’indugio,
si proroga tra biancheria intima
e odori di poc’anzi
e il bricco del tè
tace sull’ebollizione
e non ne sapremo più nulla.
Ma sarebbe stato il primo
dei doveri da assolvere
dopo esserti rivestita
un po’ tremante d’agitazione
o per l’umidità esterna.
Anche quando le mani colgono le gioie dell’amore, è come quel substrato d’infelicità esistenziale negasse loro la pienezza, regalando solo la scintilla fuggevole di un piacere a lungo sognato. E da questo istante fiorisce quel rimpianto che, al tramonto della vita, si ribella all’immobilità alla ricerca di un ultimo, forsennato anelito di bellezza :
… verrai da un viaggio
di vent’anni fa
i polsi incatenati
a ragnatele splendenti,
priva del senno
che la senilità infligge.
E ci ostineremo a non credere
che il mondo continui da qui
e che l’arte sia ben più breve
della vita. Ci rivedremo,
conviviali di ore vespertine,
per ravvisare bellezza
negli spazi senza colori
col lessico d’amore sulle labbra,
lontani dal centro del cosmo.
Questo verseggiare onirico e al tempo stesso fortemente permeato di crudo realismo sfiora l’amore come una brezza nostalgica, consapevole che tutto si riduce ad un lento decomporsi. Eppure, il nichilismo di Servetti non è mai fine a sé stesso, prelude ad una ricerca sempre nuova che germoglia dalle sue stesse disillusioni. Ciò si riflette, oltre che nel suo sentire, anche nella sua stessa poetica, che parte dall’amore per la tradizione per metterne in discussione uno dei presupposti fondamentali, ovvero la consequenzialità spazio-temporale.
Il suo è un poetare che segue il libero fluire del pensiero, spesso disomogeneo e discontinuo ma sempre profondamente autentico, intuitivo e ricco di spontaneità. A questo librarsi della mente, “Terra bruciata di mezzo” associa una forza emotiva dirompente che esonda da ogni verso per oltrepassare tutte le barriere e farsi cuore, pelle e respiro: una fusione totale con l’animo del fruitore che ne diventa parte integrante più che spettatore.
Donatella Pezzino
Articolo del 2014 pubblicato su Bibbia d’Asfalto alla pagina Su “Terra bruciata di mezzo” di Mirko Servetti ( di Donatella Pezzino) – BIBBIA D’ASFALTO (poesiaurbana.altervista.org)