
Mito
Ora la notte risale dall’antro,
e tutto l’uomo è immerso
nel gurgite fondo. Mentre
alto e solo il pio espero apre
il suo sguardo nel cielo turchino.
A lungo io resto al balcone
contemplo le ombre montare
le pallide strade del mondo.
*
Presto l’inverno
Presto saranno gli alberi
essenziali esistenze,
e fuori tutto sembrerà di gelo
inutile. Così
l’anima è ramata
nei desideri acuti,
ignuda arte.
*
O uomo
Ricordi di alba azzurra
vanno come fradicie alghe
su acqua morta. Ti punge
— immemore delle dense ore di Dio —
il cuore: e cerchi l’anima
con fauci riarse.
Alla tua finestra
mangi la cera con denti bianchi
e ti circonda amara la carne;
dissotto l’acqua ti specchia,
enigma di materia cosciente
che hai un dorso di secoli
e non sei
che un attimo immenso.
*
Sosta del sangue
Già da un’alba morta all’inizio
di un cammino per notte opaca
mi segui nuda,
tutta simile a me
e con ali immani mi copri:
«faccio perché non precipiti»
mi dici con denti aguzzi di jena,
e non sai che il tuo occhio è un abisso.
Tu non vedi; il nostro
passo è fatale.
Burroni di ossa e di carne
marcite stanno sulla via.
Tu porti i crani a collana
e sorridi serena
e il tuo sorriso mi fermerà il sangue.
*
O giorni miei…
Solo a sera m’è dato
assistere alla deposizione
della luce, quando
la vita, ormai
senza rimedio, è perduta.
Mio convoglio funebre
di ogni notte: emigrazione
di sensi, accorgimenti
delle ore tradite, intanto
che lo spirito è rapito
sotto l’acutissimo arco
dell’esistenza: l’accompagna
una musica di indicibile
silenzio.
Invece dovere
ogni mattina risorgere
sognare sempre
impossibili itinerari.
*
Giorno di vento
E sono senza pietà per questo
mio cuore denudato;
come un giorno di vento
un albero batteva alla finestra
con braccia dementi
il mare era tutto un pianto;
e giù alla riva appena
respiravano le pietre
coperte di schiuma,
e c’erano rottami
di barche e di rami
e una scarpa gettata tra i sassi
e un lembo di veste;
ed io guardavo ridendo
ai vetri della cella.
*
Oggi m’avvidi
Oggi m’avvidi d’essere
una frattura
ove il fondo
fluire del tempo
riceve un riflesso di sole.
Sento d’aver perduto
l’equilibrio e il gesto
umano. Gli altri
se ne vanno composti
mentre il mio cammino
è una sorpresa orrenda.
Oh quante volte
percorsi questi rioni
a fianco agli amici
tentando d’abbandonarmi
alla strada! Invece
sempre più è scoperta
questa mia enormità.
Essi hanno le loro parole,
ma io ragiono col sangue
cieco.
*
Io non ho mani
Io non ho mani
che mi accarezzino il volto,
(duro è l’ufficio
di queste parole
che non conoscono amori)
non so le dolcezze
dei vostri abbandoni:
ho dovuto essere
custode
della vostra solitudine:
sono
salvatore
di ore perdute.
*
(da O sensi miei… Poesie 1948-1988, Note introduttive di Andrea Zanzotto e Luciano Erba, Postfazione di Giorgio Luzzi, Milano, Rizzoli, 1990).
David Maria Turoldo, al secolo Giuseppe Turoldo, nasce a Coderno nel 1916. Presbitero, teologo, filosofo, scrittore, poeta e antifascista, membro dell’ordine dei Servi di Maria, rappresenta nel secondo Novecento una vera e propria figura profetica in ambito ecclesiale e civile, nonché uno dei più accesi sostenitori delle istanze di rinnovamento culturale e religioso di ispirazione conciliare.
Il forte senso di dignità delle condizioni povere del suo Friuli lo porterà a fondare opere di accoglienza dirette a tutti i bisognosi, senza distinzioni di censo, di religione o altro. Per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di piaghe come la povertà, la guerra, la violenza e il razzismo, non esita a servirsi degli apporti dei media e della cinematografia, interpretando il comando evangelico “essere nel mondo senza essere del mondo” e aprendo la strada a futuri sviluppi (si pensi all’odierno utilizzo dei social in ambito cattolico). Muore a Milano nel 1992 per un tumore al pancreas.
Turoldo ci ha lasciato traduzioni dei Salmi, opere esegetiche, saggi teologici, omelie, lettere, drammi teatrali e raccolte di poesia. In lui, la parola poetica è tutto: punto di ritorno e di connessione di una miriade di attività, ma soprattutto espressione di quel silenzio prezioso di cui l’uomo, spesso inconsapevolmente, ha bisogno per poter rientrare in sé e ascoltarsi; un’isola di purezza e di autenticità in mezzo alla selva di rumori e chiacchiere inutili che quotidianamente ci circonda.
Il linguaggio, in tal senso, è allo stesso tempo dialogo con sé stessi e apertura al mondo, autodefinizione e contatto con Dio; è un ritorno alle sorgenti dell’esistenza, attraverso uno stile poetico essenziale, nudo e diretto, simile ad un’esperienza mistica dalla quale attingere luce e forza contro i mali del nostro vissuto.
Donatella Pezzino
Articolo pubblicato sulla rubrica “Caffè letterario” di Bibbia d’Asfalto alla pagina: David Maria Turoldo / Caffè letterario – BIBBIA D’ASFALTO (poesiaurbana.altervista.org)